Piccolo compendio personale di maternità ed ironia
Dimagrisco in cinque giorni i cinque chili e mezzo presi in gravidanza, perdo anche di più e mi dico che davvero questo corpo bistrattato mi ha insegnato la pazienza, le proporzioni tra impegno, fatica e piacere di dare e prendere la vita.
Il ventre che era enorme, quel pancione che capitava la gente si girasse a guardare (perchè 「ラウラさんのお腹、新幹線みたいだね」“Laura-san, è come uno shinkansen”, tutto puntato in avanti e sottile ai lati) non c’è più e, dopo sette lunghissimi mesi, torno ad inforcare la mia bici. Piccole distanze, di pura necessità, il mio corpo ritrova la felicità del movimento, il respiro la distensione che aveva smarrito.
Torno ciò che ero prima, divento ciò che non si può essere che dopo.
Guizza come un pescetto questo bimbo. Cresce che è un piacere e nel trovargli sul volto, ogni giorno, un nuovo volto, negli occhi un movimento anche solo di un niente più preciso, il serico volume delle guance e delle braccia, provo gioia.
È il Mondo Nuovo. È dove tutto è inedito, dove non esistono istruzioni per l’uso nè etichette esplicative.
Ryosuke, a casa con me in questi mesi, si vive a fondo nostro figlio. Ed io penso che, davvero, il Giappone fa tanti passi in avanti, che merita fiducia.
Generazioni di padri assenti partoriscono figli che, diventando a loro volta genitori, si riappropriano del proprio ruolo, comprendono il valore della paternità che in nulla è inferiore alla maternità, rimettono in discussione certi schemi, si danno una chance di costruirne degli altri in cui essi non siano più a margine del foglio, meri fabbricanti di stipendi.
Quanto ho imparato del Giappone in questi mesi! Quanti aspetti inediti, nel bene come nel male, mi si sono rivelati.
Ho capito che Tokyo è imbastardita dalla fatica e non c’è condizione fisica che tenga quando si tratta di cedere posti in treno, passi nello scorrere veloce di scale mobili e ascensori. Che le biciclette sui marciapiedi corrono un po’ troppo e ad incazzarsi a volte si fa pure del bene ma che, in fondo, il più delle volte a nulla serve. È l’indifferenza uno dei cinque anelli che sorreggono l’architettura millimetrica della capitale del Giappone.
Ho imparato che la maternità qui è cosa sacra, che il parto –esclusi casi realmente necessari – lo si fa sempre naturale e senza epidurale. Perchè, sembrano dire, la natura sa quello che fa e ha le sue ragioni.
Che gli ospedali sono tanto efficienti e ci si sente seguiti, rassicurati in ogni fase. Perchè non ci si limita all’aspetto puramente medico ma ti guidano e preparano ad esser madre. Di questo, soprattutto, sono grata. Della scrupolosità e dell’attenzione, del fatto che ti tengano per mano – anche se tu cerchi di liberarti dalla stretta perchè l’abitudine a camminare sola non te la scrolli di dosso tanto facilmente – e passo dopo passo, settimana dopo settimana, scopri che sai allattare, che tu e il piccino siete una squadra talentuosa e remate insieme, nella stessa giusta direzione. Cinque giorni di ricovero davvero benedetto che ti rende sempre più consapevole del mutamento che ti attende, che ti rende sicura d’essere all’altezza. Lezioni e mini corsi, perchè c’è così tanto da apprendere.
Ho imparato anche che in Giappone la gravidanza dura non nove ma dieci mesi, e che tutti hanno il proprio 「母子手帳」boshitechou, ovvero un “libretto di mamma e bambino”, su cui vengono annotate tutte le informazioni dal momento della gravidanza ai primi anni di vita del piccolo, in modo da portarsi dietro sempre tutto l’essenziale. Che attaccate alle borse delle madri non ci sono solo i maternity mark ma anche omamori per augurarsi un parto sicuro, che vi sono templi più “potenti” dove chiedere favori per il bimbo e per il parto, dove comprare amuleti da strofinarsi sulla pancia, legnetti da incastrare nel sostegno del ventre che lievita di mese in mese.
Che più che le tutine, ai neonati viene fatto indossare una sorta di kimono a due strati. Che la mitologia del “ciò che mangi può causare le coliche al neonato” qui non vige affatto. Che c’è un motivo per cui la parola “neonato” 赤ちゃん akachan ha il rosso (aka) dentro, tanto che tuo figlio lo riconosci subito, nella nursery, dal fatto che non è rosso come gli altri.
Imparare tantissime parole, kanji di parti del corpo che sono tenerezza, organi di cui non percepivi l’esistenza ma che spinti verso l’alto, dove batte il cuore, si fanno pretenziosi d’attenzione. Imparare anche nuovi sentimenti, mischiare d’ironia tutto il percorso, ridendo fino alle lacrime delle disavventure dovute un poco alla natura, un poco ai misunderstanding inevitabili nel salto della lingua.
Come, alla lezione pre-parto, il ricorrere costante della parola jintsu che tu conosci come ジーンズ, i jeans e, mentre le ostetriche parlano, domandano e gesticolano ti chiedi perchè mai quei pantaloni siano così importanti, tanto più che tu non li indossi mai. E poi, dopo jeans di qua e jeans di là, ecco che il dubbio sonoro (esploso nell’istante in cui vien fuori nella spiegazione del ricovero persino una stanza dedicata ai jintsu!) si spalanca per dirti come l’allungamento del ji non esista ma che sia spostato invece sulla u. Ed ecco che ジーンズ jiintsu “i jeans” si tramutano magicamente e tragicamente in 陣痛 jintsuu , ovvero nelle “doglie”. Addio pantaloni, benvenuto travaglio!
O ancora, in sala parto, dove – complice una letteratura cinematografica inconsciamente assorbita fin da ragazzina – attenderesti il classico “spinga, spinga”, magari in una traduzione letterale in gaipponese, e invece, pazza di dolore non capisci le istruzioni, e ti immagini lì a soffrire per altre due o tre ore oltre alle ventotto già trascorse nella stanza (non più dei jeans, ma delle doglie). E così, quando Sousuke viene fuori, più che commozione la sorpresa, lo stupore. “Ma che davvero?” “Ma veramente è già uscito?”
In giapponese esiste questo detto, 「子どもは授かりもの」/kodomo wa sazukari mono/ ovvero che un figlio è un dono, qualcosa che non porta l’impegno o la determinazione, che non ha a che fare con il merito o con le proprie doti.
È un grumo di casualità, un regalo che richiede, di lì in poi, riconoscenza per la piccola creatura che arriverà. Sono parole prestate, parole consegnate di bocca in bocca, un detto che ritrovi sulle labbra di parenti, di amici e persino di studenti.
Insegnare all’università, con Sousuke che si agitava forte in pancia quando declamavo sostantivi ed aggettivi, mentre spiegavo l’origine della lingua italiana in giapponese, la storia di Verona, le declinazioni dei verbi in italiano, è stato complicato.
Eppure le tenerezze e le premure degli studenti, le cartoline e i regalini per augurare a lui di nascere sano, a me di mettercela tutta, i 「頑張ってください」“ganbatte kudasai” a pioggia, i 「元気な子どもを産んでください」“genkina kodomo wo unde kudasai” a catinelle, i 「お腹を触ってもいいですか?」“posso toccarle la pancia, Sensei?” e i 「赤ちゃんが動くとき、触らせてください」“mi fa sentire quando si muove?” che demoliscono l’idea preconcetta della fisicità negata dei giapponesi, son tutte cose che mi hanno spinta a tentar di conciliare ogni cosa, a lavorare fino agli ultimi giorni, fino al giorno prima del travaglio.
Ma ne esiste, di detto, anche un altro, molto meno poetico. Più essenziale. Relativo ai dolori delle doglie e che mi è tornato in mente mentre io urlavo come una posseduta e le giapponesi, nelle salette accanto, non si sentivano fiatare.
「出産の痛みは鼻からスイカを出すようなもの」ovvero che partorire è come tirar fuori una anguria da una narice.
E, nell’immagine che oltre che efficace è molto spiritosa, m’abbandono nuovamente all’ironia che, quando la gioia si mischia alla stanchezza e alla sensazione di non possedere più il tempo necessario per portare a termine ogni cosa, è ciò che in assoluto è più importante.
Non prendersi sul serio e ridere, ridere di gusto di tutte le idiozie di cui è piena ogni giornata.