Un daruma nella pancia
E quando nascerà, quando sarò sicura che ha ogni cosa che gli spetta, allora lo dirò.
Allora racconterò, senza entrare inizialmente troppo nei dettagli, del daruma che dal primo ottobre ho nella pancia.
Perchè è così che quel giorno d’inizio autunno, in una piccola clinica sospesa in un angolo di Tokyo, la dottoressa l’ha chiamato. Lo ha fatto spiegandomi la macchiolina bianca sullo schermo e nel mio ventre e facendomi notare che, davvero, l’embrioncino aveva quella forma lì:
“Imai Messina-san, adesso ha un piccolo daruma nella pancia”
Quando rotolerà fuori dalla mia corazza, quando mi renderà madre, solo allora lo scriverò.
E poi, quando mi sentirò più forte, quando avrò il tempo per spiegare come tutto ciò è avvenuto, quanta sofferenza ha preceduto questa gioia, sarò in grado di aiutare quelle donne che attraversano la maternità prima ancora di raggiungerla, in una ricerca lunga, estenuante che mostra quanto poco di ovvio e naturale ci sia nell’esistenza, quanto la mancanza di ragioni non salvi dalla frustrazione. Semmai la aumenti.
Ma quel giorno sarà solo la gioia.
Sarà solo Ryosuke, la mia Gigia e sarà lui, che tanto ho atteso, cui abbiamo dato innumerevoli nomi prima ancora di vederlo. Quasi ci aiutasse a crederci di più.
Sarà Claudio e sarà Sousuke, un nome romano per ricordare la mezzaluna della madre e uno giapponese per fermare quella del padre.
Ci sarà dentro il kanji di Mamoru – di quel nonno così colto che Ryosuke ha tanto amato e a cui al funerale, davanti alla sua figura circondata di fiori, libri e dolci, ho fatto una promessa – e quel suono finale, quel “ske” che raggruppa, come steli di fiore in una mano, il gambo del nonno Yousuke, del padre Ryosuke e del figlio Sousuke.
Uniti nel suono, nella melodia del nome.
Avrà il doppio cognome mio e di Ryosuke – perchè il tribunale ci ha detto sì ed ora siamo veramente Imai Messina – e si porterà tutte queste lettere e tratti nelle tasche.
È il nome.
È il primo dono.
Sousuke
La conchiglia che le lumache portano arrotolata sulla schiena e le donne sulla pancia, si chiuderà in me nel momento più opportuno. Fugherà i dubbi che ho avuto forti in tanti giorni di questi lunghi dieci mesi, tutta concentrata a nascondere, celare, proteggere dalla curiosità altrui, dal timore stesso della gioia che, capisco ora, fa tanto più paura del dolore.
Perchè una volta che la si è avuta tra le dita, è devastante lasciarla andare via. Non c’è via di ritorno. Non si è più disposti a separarsi dalla felicità. Si vuole che rimanga e se anche solo accenna a sparire, se afferma invero di non esserci mai stata, al suo posto arriva un tormento senza soluzioni.
Ma quel giorno voglio credere che incontrarlo mi libererà da tutto ciò che lo ha preceduto, da quel gomitolo di anni che ho condiviso con pochissime persone, così poche che sciacquavano nel palmo di una mano, come barchette in mare aperto.
Che vivrò l’incontro con mio figlio certa che tutto quello che ha portato a lui, e a nessun altro, è stato prezioso, una di quelle prove che la vita risparmia ad alcuni e ad altri no, ma che sa rendere migliore chi non si fa incattivire dal dolore, chi nel non riuscire non s’abbandona al vittimismo nè alla rassegnazione ma insiste, cerca strade e, quando una strada non c’è, si mette pazientemente ad aspettare che essa si apra e manifesti.
Perchè per raggiungere la gioia non esiste mai una strada sola.