Un passo avanti e uno indietro

È un caos bello. Trascinarsi per le strade umide di pioggia di una cittadina vestita a festa. Al riparo dei teloni ci sono tavole imbandite, bambini che trascinano le madri sotto il palco dei musicanti.
Il suono dei flauti, le maschere e i carri, diversi per ogni quartiere. È come un palio, ma senza animali nè gare di velocità. Sono “scontri” musicali, a colpi di danza, tamburi e incitazioni. Le strade si accendono di gioia, dell’eccitazione della festa.

Chioschetti di yakisoba, okonomiyaki, takoyaki e di pietanze da bambini: frutta caramellata, zucchero filato. Ma ci sono anche mochi, il rumore croccante dei sembei. Le file più lunghe, però, le meritano un banchetto dove due nonnine che cuociono alla griglia yakitori e un minuscolo negozietto dove si scaldano onigiri alla piastra. Cibi tanto semplici cui però, un giapponese, non farebbe mai a meno.

È  il giorno della festa, dell’antico matsuri annuale che chiama turisti anche da lontano. E allora tutto il quartiere si mette al lavoro, si impegna per restare. Perchè la storia, per continuare, ha bisogno di esser ripetuta e, insieme, di cambiare. Cambiamento che non è rivoluzione ma adattamento, ai tempi, ai costumi che non restano mai uguali.

Del Giappone questo ammiro, del passo che va avanti – per non farsi sfruttare da chi un tempo (e forse anche adesso) si credeva superiore – e del piede che, fermo, resta indietro a sostenere quello che procede. Penso allora che è un poco come camminare.

Che per accettare il movimento, il corpo necessita di stabilità, di una sorta di apparente fissità.

Cambiano nei decenni i materiali di questa bella festa che si tiene ad ottobre a Kawagoe, la musica resta la stessa. I colori sono quelli, più ricchi invece certi dettagli. Ma il matsuri continua negli anni, così come il tempietto di quartiere non decade. A Tokyo non è infatti raro trovare in giardini privati minuscoli tempietti, torii sotto la cortina di palazzi. Minuscoli edifici stretti tra grattacieli. È il contrasto e, insieme, l’armonia che nasce dal miscuglio di cose tanto diverse che – però – non vedono nella diversità un motivo per farsi la guerra.

La mistura di questa città racconta anche i giapponesi, soprattutto quelli che più degli altri sembrano guardare al futuro. Un passo slanciato in avanti – nella tecnologia, nell’atmosfera giocosa del consumismo e del kawaii, nell’economia che si spinge a ritmi sfrenati – e uno indietroyuzu che si lasciano cadere nella vasca in questi giorni (per diffondere nella casa o nel bagno pubblico profumo di limoni), una mamma che tiene per mano i suoi bimbi e li fa inchinare all’uscita del tempio, l’inchino sempre pronto di chi saluta, ringrazia o si scusa.

A volte viene voglia di buttare via il passato, di guardare solo avanti. Accade a certe economie, al volto triste di alcune città. Accade spesso anche a chi si innamora, persino a chi vede il Giappone come una patria ideale. Eppure, mi dico, non è necessario ignorare quel che è stato, distruggere quel che ha preceduto, considerare un po’ meno il paese di partenza. Anzi. Per camminare serve sempre il piede semi-fermo, ben piantato a terra, quello indietro. Per correre è lo stesso.

Un passo slanciato in avanti e uno indietro, stabile, sicuro, certo di se stesso eppure pronto a un nuovo movimento. E così via.

川越祭り

「バランスを取る」o l’equilibrio

Quando la pesantezza mi àncora alla terra, quando ho poco da dire e troppo da sentire, mi prendo per la mano e mi porto in giro per Tokyo. Mi sostengo per un braccio mentre attraverso l’ultima portiera in coda alla Yamanote, una giravolta abile di fianchi ed eccomi seduta tra un fumoso salaryman mentre legge un giallo di Higashino Keigo e una donna dormiente, con la testa china in avanti, il capino di uccellino che riposa.
  L’eccezione – che non detta legge – mi vuole oggi libera da impegni, la giornata di lavoro è finita, il pomeriggio è tutto mio.
Eppure c’è qualcosa che non va, una sensazione di fastidio che non passa.
Mi trascino a scrivere a Kinokuniya, nel caffè che sorge sul ventre del palazzo che contiene solo carta: riviste, libri, manga. Ma non sono produttiva, una tristezza senza nome nè cognome mi inibisce. Laura, cosa hai?

Chiudo il computer e apro libri in italiano. Leggo Natalia Ginzburg e “Le voci della sera”, leggo “Mi riconosci” di Andrea Bajani (“Il mio cognome si legge Baiani, non Bagiani. È molto più facile” mi ha corretto sere fa ad un evento in onore di Tabucchi, ma io nella testa continuo a sbagliare – con colpevole piacere), leggo Sergio Atzeni e “Passavamo sulla terra leggeri” e mi sembra di tornare bambina, perchè mi sembra un libro come non ne ho letti mai.

  La parola leggerezza oggi mi rincorre. Quel che manca, del resto, è sempre avanti a noi e ci ricorda la sua assenza. Esco dal caffè per salire in testa all’edificio. Ma anche all’ultimo piano, circondata da pubblicazioni straniere, mi sento ancorata a terra. Questa è un’altezza che ancora non basta. Si può andare molto più in alto di così.

Lodi robuste, un altro articolo che uscirà a dicembre, il romanzo che esce a febbraio. Proprio ora di cosa ho, io, da lamentarmi? Ci sono state solo cose belle in questi giorni eppure sono inquieta. Perchè? Ma poi che espressione ho in viso? Che motivo ho di buttarmi queste ombre sulla faccia?
  Mi lascio scivolare per le strade di Shinjuku. Comincia a fare freddo, gli alberi perdono le foglie, la gente abbandona gli abiti leggeri dell’autunno e l’incertezza che nasce nel mutamento di stagione. Si aggiungono giacche, foulard e impermeabili, il passo veloce negli scarponcini da pioggia; un nuovo tifone è alle porte, già bussa e salirà, e farà danni che di volta in volta, quando la storia inevitabilmente si ripete, tutti sperano più lievi. Nessuno merita una morte così.
  Alzo lo sguardo e scopro che i piedi mi hanno portato sotto ai grattacieli del Comune. Non c’è fila questo pomeriggio, il tempo volge al plumbeo, l’osservatorio è gratuito ed è in cima al mondo. È così che diventerò più leggera, mi dico senza voce.
  Forse la risposta a quest’ansia è proprio là, con le nuvole basse all’orizzonte, la pioggia che tintinna sopra i vetri, i turisti che fotografano l’immensità della città chiacchierando del programma della sera, dei luoghi che restano ancora da visitare, del cibo che si andrà ad assaggiare. Ci saranno lingue sconosciute, ci saranno anche italiani chiacchieroni, ci sarà la capitale giapponese spalmata come burro sopra il pane, come una cosa che lo sguardo può infine contenere e la bocca raccontare.

Ma non è l’altezza a salvarmi dall’ansia ingrata, è una parola. Perchè è sempre una parola.

  “È che stai prendendo un equilibrio” mi dice per telefono Ryosuke, mentre guardo all’orizzonte un minuscolo trenino verde, la Yamanote, scorrere lento tra i palazzi.
“In che senso?” chiedo. “In questi giorni ci sono state solo cose belle”
“È proprio per questo. Stai riequilibrando dentro te le sensazioni”
  E mi immagino d’un tratto su una fune, con un’asta in pugno e il mondo sotto i piedi. È il posto ideale per immaginare di cadere e per sperare di non farlo.
Poi con la solita pazienza mi spiega il meccanismo di funzionamento interno dei mammiferi, dell’omeostasi, del mantenimento dello stato originale, della chimica delle emozioni, di come vi sia per questo una resistenza naturale al benessere così come al malessere e di un libro che per caso ha letto di recente e che gli spiegava diffusamente l’argomento,
  Non avevo mai pensato che l’equilibrio lo si perde non soltanto quando accade il negativo ma anche quando vi si aggiunge il positivo.
  「バランスを取る」/baransu wo toru/“prendere l’equilibrio (lett.), riequilibrarsi”.
  Aggiusta tutto una parola. Ti spiega che non è che tu stai male, ma che cerchi l’equilibrio. Che stai integrando quella piccola gioia, quell’eccitazione figlia dell’impegno, alla tua vita quotidiana.
  Che non c’è nulla da temere. Accadrà di nuovo, sparirà. Tornerà e poi se ne andrà ancora.
Ma tutto, prima o poi, si bilancerà.

♪ Two Door Cinema Club, I can talk

Alla paura si va incontro eleganti

  Dolore e un po’ di sangue nella sera. Il tuo corpo si racconta. Ti dice cosa ha passato ieri, che il tempo cambia faccia quando non ha dentro piacevolezza e sembra allungarsi all’infinito.
 
  Un’analisi molto dolorosa in una piccola clinica di Tokyo. Al quarto piano d’un edificio alto e stretto, incastrato tra un supermercato, una galleria coperta e un piccolo tempietto di quartiere. S’apre la porta scorrevole dell’ascensore e davanti, sulla sinistra, c’è già la reception. Perchè questa città dello spazio fa scarpetta, dentro ogni metro quadrato s’agita la vita.
  Come tra due palmi un dado, avvicini le mani all’orecchio: chissà che numero uscirà.
  In questa piccola clinica appesa al mondo i dottori son veloci, non si perdono in chiacchiere, gli spazi sono sì minuti, ma l’attrezzatura è all’avanguardia. Tutto funziona e tutto va dritto al punto. Sia le cose che le persone.
  Farà male, ti avevano avvertito. E nei giorni che precedono la visita ti prepari non tanto al dolore – tanto a quello è impossibile prepararsi veramente – ma alla paura. Perchè tu ciò che devi fare lo fai sempre ma sei una fifona.
  Agli esami – tutti –, alla discussione della tesi di laurea italiana, a quella di dottorato di primo livello giapponese, a quella di master italiano, alle conferenze in Giappone e a tutti gli esami che hanno preceduto e succeduto ognuna di queste ed altre tappe, ci sei andata vestita sempre elegante.
  Bisogna affrontare la paura con un pizzico di eleganza, ti dici. Perchè per mantenere l’apparenza tu riesca a dissimulare – a te stessa – anche la paura.
  Oggi è il giorno. Farà male ma va fatto. Cosa ti metterai?
 Trucco leggero sulle guance, la matita marrone che scorre rapida intorno all’occhio, quella nera giusto un poco dentro in basso, il rimmel che spalanca ciglia e dice loro di aspettare, che guardare davanti è sempre la scelta migliore. Rimandare è un’attesa prolungata, una cosa che tradisce.

  Scegli l’abito bianco e nero a righe grosse, di stoffa spessa e liscia al tatto, che sembra diviso e invece è un one piece; è quello che hai guadagnato in una boutique di Shibuya grazie a una piccola strategia d’acquisto – madre e figlia che maneggiano l’abito in questione, l’ultimo (!), in saldo, lo appoggiano al corpo davanti allo specchio, fanno smorfie, c’è forse qualcosa che non va; ti notano, ma tu sai che il desiderio altrui rende – senza vera spiegazione – più forte il proprio, e magari lo compreranno solo perchè tu lo stai desiderando.
Allora inizi a vagare per il piano, fingi attenzione per altri vestiti, per altri negozi.
Dopo dieci minuti torni. Lo trovi appeso lì, il tuo trofeo, senza più nessuno a fargli compagnia. È tuo, ti sta proprio bene, costa niente, te lo sei guadagnato.

  È perfetto per la visita di oggi che, lo sai e lo stra-sai, che ti farà male.

  Scegli l’involucro migliore, il tacco comodo ma bello. La vanità che mette recinzioni alla paura.
  È il modo che hai di gestire il batticuore, l’ansia folle di fallire, la voglia dolorosa di riuscire, l’orgoglio che ti dà sonori schiaffi preventivi, il pessimismo che non riguarda mai nessuno tranne te.
Andare incontro alle proprie debolezze con una forma bella, con un pizzico di vanità, per evitare di lasciarsi andare al sentimento più facile: la fuga. Fuga di gambe ma anche fuga di emozioni. Paura chiama paura, dolore chiama dolore. Ed il sentire si fa solo uno specchio che amplifica se stesso e non si conosce.
  Esci. All’inquietudine si va incontro a testa alta, con un abito elegante e una forma a contenerti. Il resto, tanto tu già lo sai, non lo potrai evitare.