Tempo che vieni, tempo che vai
A volte ci si fa male inutilmente. E il tempo è poco. Il tempo che, mentre lo si chiama, lo si perde già.
Ieri° sarebbe stato il compleanno della nonna di Ryosuke. Ieri° è stato il funerale del nonno di Ryosuke.
Abito nero, scucito l’orlo sul lato sinistro, una collana di perle bianche, quelle indossate al mio matrimonio. Un fazzoletto arrotolato e infilato tra la manica e la pelle del polso.
È stata una cerimonia commuovente, struggente. Il nonno di Ryosuke era shintoista e così è stato anche il suo funerale. Una sobrietà di materiali – che richiamano il legno, i prodotti di stagione – e di parole, che sono poche e cantate come haiku.
Siamo solo un mucchietto di persone. La famiglia. I figli, e di questi le mogli o i mariti, i nipoti. La bisnipotina è a scuola. Ma non potrebbe essere diversamente perchè lui era insegnante, preside di una grande scuola.
Aprono la bara e accanto al suo volto di pace sono poggiati un pacchetto delle sigarette preferite, lo hyotan scolpito un tempo per Ryosuke bambino, i suoi dolcini preferiti.
Tra le parole cantilenate dal kannushi, che mi ricordano la lettura di brani del Genji Monogatari all’università, ci porgono cesti di corolle di fiori. Uno alla volta, tutti, ne adagiamo intorno al suo volto scoperto, nudo e bianco, immerso nella calma della morte.
Posiamo delicatamente le corolle due alla volta, sul cuscino di seta che sorregge la testa. Crisantemi bianchi, sinuose orchidee, fiori d’un rosa acceso il cui nome non conosco in nessuna lingua.
Sul suo ventre Ryosuke spalanca le parole crociate che lui amava tanto fare, il libricino delle passeggiate nella prefettura di Oita. Il segnalibro infilato nelle pagine del paese natale, inizio e fine di ogni cosa.
Ryosuke mi si abbandona e piange forte. Per un istante avverto la sproporzione dei nostri corpi e mi sento tanto inadeguata. Perchè Ryosuke è tanto più alto di me e l’accoglienza che io trovo nel suo petto lui non può averla e non potrà mai averla da me. Eppure gli sembro bastare ed io ho una pinna in petto.
A casa, sul letto, sul pavimento della nostra casa piccina, con la Gigia ignara e alla ricerca perenne delle nostre mani, sarà più facile. E infatti lì lo accoglierò più che posso. Lo lascerò parlare e non cercherò più di consolare. Il dolore è cosa giusta e il ricordo che provoca le lacrime è pieno di diritti.
Ma ora è il momento in cui possiamo dirgli le ultime parole prima che il suo corpo perda la forma che conosciamo e che ricorderemo. Ci raccogliamo intorno a lui.
E allora ognuno dice qualcosa al grande nonno, al padre, al suocero. Grazie papà. Otsukaresama deshita. È stato breve ma sono tanto contento di averti conosciuto. Anch’io gli dico una cosa importante, ma la voce è fioca e la sussurro a Ryosuke che in questo desiderio è acqua e farina, sale e shoyu.
Un corpo tanto grande. Così me lo ricordo.
Un corpo che adesso brucerà, che si farà cenere ed ossa insieme al suo piccolo bagaglio di cose e di fiori.
Attendiamo che questo avvenga in un’altra sala, in un altro luogo. Poi nuovamente ci riuniamo.
Lì, davanti a noi, in un grande vassoio d’acciaio, quel corpo tanto grande che è ora ridotto a un mucchietto di cose, friabili come foglie autunnali, come scaglie di pietra gessosa. Poi, un attimo dopo, inizia un rituale che non conosco.
Due a due, con un paio di lunghissime bacchette ciascuno, – uno ad un lato e l’altro a quello opposto del vassoio – impugniamo il legno e con la punta muoviamo insieme un osso, uno solo per coppia, nel contenitore.
Quello che prende Ryouke è sottile, più piccolo degli altri, d’un bianco che è cenere, marrone e carbone dolce. Lo sceglie minuto perchè io non abbia paura di sbagliare, di farlo cadere.
Una ad una e poi insieme tutte le ossa vengono poggiate nel contenitore. In cima alla scatola, con un paio di guanti bianchi, chi deve spiegare ci spiega, sollevando – con la delicatezza di chi stia maneggiando il corpo tiepido di un uccellino – alcune ossa rimaste da parte:
“Questo è l’orecchio destro. Questo l’orecchio sinistro. La gola. La parte superiore della testa.”
Sopra ad esse lo zio di Ryosuke vi posa gli occhiali grandi che portava il nonno, una delle protesi che noi umani ci portiamo dietro nella vita.
La scatola avrà il suo coperchio e un contenitore bianco, di una carta gentile all’occhio e al tatto. Una scatola che Ryosuke abbraccerà al ritorno sul minibus che ci riporta al punto di partenza. La sorella, dietro di lui, tiene la fotografia che lo ritrae, due nastri che fanno da cornice ai lati. Uno bianco e uno nero. Un fiocchetto che mi fa pensare, in un istante, al dito che poggiavo sui lacci delle scarpe da bambina, quando un adulto me lo chiedeva e che, tirando via, faceva sì che il nodo potesse infine essere chiuso senza risultare troppo molle.
Passa un pulmino di bimbetti dell’asilo. Ci incrociamo. Ci guardano attenti e osservano la fotografia buona del nonno.
Lo shintoismo vuole che chi muore diventi un 神 kami, un dio.
“Così proteggerà tutta la nostra famiglia” dice Ryosuke. E penso che non c’è cosa più giusta di questa. Perchè la protezione, il grande nonno, l’aveva anche nel nome. Si chiamava “Mamoru” che, letteralmente, in questa lingua piena di disegni, significa “protezione, proteggere, salvaguardare”.
Quello di quest’uomo che più ci commuove è l’amore infinito che provò per la moglie. Un sentimento che turba perchè mischiato indissolubilmente al dolore della sua perdita più di venti anni fa. Non era di tante parole ma quella sofferenza ce l’aveva scritta addosso. E quando si perde qualcuno che è ponte con la vita si vuole solo morire, abbandonarsi, lasciarsi andare.
Io so che lo farei. Non avrei la forza, non mi interesserebbe forse neppure averla.
Bisogna sbrigarsi ad essere felici. Bisogna sbrigarsi veramente.
♫ Port Royal – Anya Sehnsucht
°Era il 2 di maggio e c’è voluto un po’ di tempo…