Chiedere scusa o della forma (下)
“Il sorriso dei giapponesi è ipocrita. La loro cortesia non è sincera”, sbuffano talvolta gli stranieri liquidando così le basi di una cultura millenaria. Quanta arroganza!, penso. Quanta (non invidiabile) certezza! È il colonialismo dei tempi odierni che benchè si metta in bocca parole come diversità, equità, rispetto etc. nella pratica del sentire continua a ritenere giusto solo ciò che comprende interamente.
E non importa che i giapponesi tra di loro si capiscano perfettamente – che si sappiano persino prevedere senza bisogno di parlare –, l’importante è che si comunichino a noi, nel nostro modo occidentale che è tanto sincero, tanto aperto. E poi si può sempre tirar fuori a mo’ di slogan il discorso sui suicidi – che vien fuori a fagiolo – per denigrare ogni aspetto culturale di un paese che ci è intimamente estraneo.
È giusto tutto questo? L’autenticità, la verità di cui tanto parliamo è davvero la cosa più augurabile al mondo?
Allora ci sarebbe da chiedersi se a un commesso che non si conosce, verso cui non si prova affetto nè mai lo si proverà, si debba richiedere un sorriso cosiddetto sincero (che pertanto elargirà solo se la giornata gli sarà andata bene, se l’amore sarà corrisposto, se le finanze non lo crucceranno più di tanto) o piuttosto invece una cortese e formale performance per il ruolo che egli riveste nel negozio.
Perchè pretendere che quel commesso senta fino alla punta dell’alluce una improvvisa simpatia nei nostri confronti, perchè giudicare la sua cortesia tacciandola di falsità?
Ricordo a Roma un tabaccaio da cui ero ahimè spesso costretta a comprare biglietti della metro. Un uomo sui quarant’anni, sempre arrabbiato e scortese, maltrattava con ferocia i clienti. Eccola l’altra faccia della sincerità!
Personalmente – perchè come sempre solo di me posso parlare – trovo nel lavoro una sana via di fuga da me stessa, nei giorni ammaccati da un qualche dispiacere. Mi contagia la giornata, mi disabitua al cattivo umore perchè colleghi e studenti nulla hanno a che fare con ciò che mi ha creato dispiacere e, presa distanza dal negativo, mi tuffo ad occhi chiusi nel mio ruolo.
Anche nei momenti più bui della mia vita la costrizione al sorriso, mi ha educata alla pazienza. E anche se poi, una volta salutati i miei ragazzi, pronunciato l’otukaresama deshita alle segretarie, fatto l’inchino ai guardiani ai cancelli dell’università, sono riemersi i crucci, vi sono tornata sempre con un po’ meno stanchezza.
So, perchè l’ho provato negli anni, che quando invece si raggiunge un rapporto profondo – il che per un giapponese richiede un tempo lungamente maggiore rispetto a quello di un occidentale – ci si capisce perfettamente e l’autenticità tanto amata dagli occidentali abita tutti i movimenti.
Lo ribadisce con chiarezza Nakagawa Hisayasu in un breve e delizioso “saggio di antropologia reciproca” franco-giapponese, di cui consiglio vivamente la lettura.
La sincerità è un dono ma anche un’imposizione, quella delle proprie opinioni passate così, nude, come un regalo avvolto solo nelle mani. La giustificazione dell’imposizione del proprio sincero comunicarsi.
E allora, dove risiede il giusto comportamento? Quello giapponese o quello occidentale?
Non credo al “giusto mezzo” che è concetto troppo ferreo per essere veramente giusto. Spesso uno ha ragione e l’altro ha torto e non ci sono comode linee di demarcazione che definiscano il centro perfetto. Ma soprattutto nel parlare di cultura il termine “giustezza” è inapplicabile.
Il giusto mezzo è come una definizione che “ha la forza e la debolezza di non aver mai torto e di non spiegare nulla” (Marc Augé). È giusto per principio ma non dice nulla tranne lo sforzo di far l’equilibrista.
Ci sono culture che giacciono agli antipodi del mondo, gettano ponti che, come direbbe Simmel uniscono e insieme dimostrano la separazione tra le parti. La traduzione è goffa e spesso si perde per strada la cultura. Bisogna accettarne i limiti o tentare di immergervisi fingendo una seconda nascita. Che porti quindi ad assorbire e a comprendere grazie al solo respirare. Il bilinguismo, insegna la linguistica, è possibile entro una certa età e in determinate condizioni ambientali. Dopo no.
Ma il “biculturalismo”, il “triculturalismo” etc. in questo mondo tanto tendente al globale, all’abbattimento delle frontiere, è possibile, lecito, forse persino necessario.