Amare un giapponese
Credo sia la moda che segue tutto il mondo ma mai come quest’anno ho visto tacchi alti e spesse zeppe ai piedi delle donne giapponesi. Ed io, benchè di solito avvezza a sandali super piatti, non le disdegno. E oggi i miei tacchi sono alti, altissimi. Mi rendono d’una misura che non ho. In borsa ho il cambio, perche’ mi sto lentamente riabituando.
Ricordo quando, appena giunta qui ventiquattrenne, abituata a Roma ad indossare sempre scarpe con i tacchi mi trovai in difficoltà ad apparire troppo alta. Non ho che un metro e sessantaquattro dalla mia ma quei dieci centimetri costituivano un’addizione che mi faceva sentire diversa. Avevo l’idea che il “donnone”, benchè magro, potesse far paura e così vi rinunciai. Piena di pregiudizi nei confronti del giapponese che gli stranieri intorno a me definivano medio.
“Perchè ai giapponesi non piacciono le donne alte, ai giapponesi fanno paura le donne occidentali perchè sono aggressive, ai giapponesi …”
E magari il termine risulterà un po’ duro ma c’è un sacco di feccia anche in Giappone. Uomini e ragazzi che cercano la straniera solo per “provare” e per provarsi di piacere a qualcuno di una razza tanto diversa. Gente sciocca che ti ferma per la strada, magari ti dice che sei bella e che ti vuole fare foto. Alcuni offrono lavori, altri ti passano un biglietto in un caffè. Sono sciocchezze, tecniche per rimorchiare malamente. Sciocco chi chiede e sciocca chi crede, per pura vanità, che le parole altrui siano vere. Perchè magari ci vuole credere davvero, che è bella più delle decine, delle centinaia di donne che transitano ogni giorno per Shibuya o Harajuku.
Sono quelli che approcciano la straniera e non la persona. E non sono solo per la strada – che lì è facile capire – ma sono anche amici di amici, a volte colleghi dell’università.
Della mia vita giapponese ho un periodo assai movimentato, il più movimentato all’interno di una vita soprattutto piena di studio, di passioni intellettuali e di amori profondi e duraturi. Una vita che succedeva a Roma e precedeva Ryosuke, un’esistenza breve, infilata a sandwiches tra due vite simili, improntate su una forma di rigore che mi ha fatto sempre amare naturalmente le cose “giuste”. Un periodo pieno di errori, commessi uno ad uno con una coscienza da chirurgo, con la precisione di star sbagliando ed il piacere intenso di continuare a farlo. Un anno di discoteche, di alcol, di incontri con ragazzi bellissimi ma stronzi, bellissimi ma sciocchi, normali e pure vanitosi, deboli e leggeri, troppo innamorati, troppo ingenui o troppo presi da se stessi. Ragazzi troppo-sempre-qualche-cosa o troppo-poco-qualcun’altra.
Ore piccole che poi erano ore senza giorni perchè la notte si faceva un tutt’uno con la mattina successiva, tornando da un locale in treno, con Miwa al mio fianco e un amico deejay che russava davanti a noi. Amiche con cui si andava a fare colazione magari ad un sushi-bar alle cinque della mattina. O uno spicchio di notte trascorso nei manga-kissa in attesa del primo treno. Lezioni e conferenze la mattina e poi la notte accesa. Un anno per dimenticare quello che c’era stato prima e non ci sarebbe stato più.
Un anno che mi ha ferito tanto quanto poi l’ho amato dopo. Così tanto da farne un romanzo. Un anno in cui ho capito un po’ di più da dove vengano certi stereotipi, e di quanti diversi giapponesi sia fatto questo popolo complesso.
Perchè non ci sono “i giapponesi” e non c’è lo “stare con un giapponese”. C’è Takanobu e c’è Akira, c’è Yuuki, Hikaru e Munetoshi, c’è Shoki e Hiroshi, Masahi e Tsubasa. Ognuno ha in sè qualcosa di diverso. Uno amerà una donna solo perchè straniera, per la curiosità di vedere un corpo che non sa, per provare l’amore di qualcuno che è nato e cresciuto in un continente tanto lontano. Un altro, invece, amerà una Silvia, una Francesca, una Maria o una Ilaria perchè quella donna, quella precisa donna è Silvia, Francesca, Maria o Ilaria.
E sta a quella donna fidarsi solo di se stessa. Scegliere se sbagliare per il piacere di sapere, amare un giapponese solo perchè è giapponese, rifiutare chi non è un 100% – o è semplicemente meno di un 80% –, accettare anche il 10% per essere in grado un giorno di individuare chi è molto di più, credere all’incredibile, fidarsi dell’inaffidabile, giocare con l’altro e magari poi starci male.
E in ognuna di queste fasi non c’è un solo errore. Le scelte sono sempre tutte giuste. L’importante è che, appunto, siano scelte.