L’odore intensissimo di miele, zucchero che cuoce e caramello. Giù dal basso, al primo piano del caffè francese dove studiare sembra quasi un privilegio, proviene la fragranza di dolci in divenire e la concentrazione – ben distinta dalla fame – sgocciola via. Fuori piove. No, ha piovuto. Ha minacciato duramente la mattina ma poi nel pomeriggio, per farsi perdonare i suoi eccessi, ha allungato solo nuvole nel palmo.
I momiji si sono fatti rossi, arancio. Nelle gradazioni intermedie che scivoleranno presto verso il rosso. Quello intenso e squillante. Quello che ferma le pupille e non le lascia andare oltre.
Tornando in bicicletta sono passata accanto a frotte chiassose di studenti, l’università chiude le porte e loro si riversano in strada, verso la stazione di Kichijoji.
Il Giappone che parla solo giapponese. Il Giappone che ha chiara, fissa a mente la regola del vivere civile. Il Giappone che è tanti – distinti – giapponesi.
Se ne parlava sere fa ad una cena dell’università. Un ricercatore spiegava quanto irritante fosse per lui quando un collega più giovane gli si rivolgeva in modo informale (タメ語) mentre invece, parlando con suoi coetanei di nazionalità però giapponese, quello stesso ragazzo lo faceva utilizzando nei loro confronti il linguaggio formale (丁寧語).
“Perchè loro sì ed io no? Perchè sono straniero? Voglio essere trattato allo stesso modo. Se mi trovo all’interno di un gruppo, in un ambiente governato da regole precise come quello accademico, voglio essere trattato allo stesso modo”, ribadiva con forza. E al giovane giapponese aveva fatto notare stizzito la differenza di comportamento rivelata dall’uso del linguaggio.
Un ragionamento che non fa una piega.
Se non fosse che se di tanti – distinti – giapponesi è fatto il Giappone anche di tanti – differenti – italiani è fatta l’Italia. E per me è una gioia quando le persone mi si rivolgono in modo informale. Abbiamo convenuto che quella differenza non connota “disprezzo” nei confronti dello straniero ma semplice, genuina “differenziazione”. Ed io SONO diversa. E lo sarò sempre anche se finirò per invecchiarci e morirci in questo paese.
Il fatto che alcuni (non tutti) i giapponesi si rapportino a me senza dover necessariamente inquadrarmi nel loro sistema sociale – che fa sì che debbano rivolgersi a me con più gentilezza perchè più anziana anche di un solo anno – mi rilassa e mi dà la sensazione che questo renda più distesi anche loro.
Ricordo ancora quando pregai Ryosuke di dismettere gli abiti “formali” del ~desu ~masu perche’ li avvertivo come una sorta di distanza.
Ed io amo essere italiana in Giappone. E l’informalità (che nulla ha della mancanza di rispetto o del prendersi eccessive confidenze) la percepisco come un premio.
Qualunque sia il proprio sentire, comunque, è bene comunicarlo all’altro.
Delle differenze – non necessariamente incasellabili nel bello e nel brutto, nel giusto e nello sbagliato – si nutre questo mondo.
* In foto un tempio (pensando al Capodanno che si avvicina) e due scatti autunnali del quartiere.