Numeri a tavola

Dati, numeri e ancora dati. E ancora numeri.
Come sempre accade di fronte a uno sconvolgimento sociale dovuto a un qualche evento naturale e non, entrano nel vocabolario di tutti i giorni termini che non avevamo mai pronunciato. Parole magari lette su carta stampata con prevedibile indifferenza, ma che non erano mai state utilizzate all’interno di una conversazione “normale”, di argomento quotidiano.

Oggi sfogliando l’edizione serale del giornale ASAHI (朝日新聞) ci ho fatto caso. E poi di nuovo parlando con Ryosuke e con i suoi genitori.

シーベルト Sievert, “l’unità di misura della dose equivalente di radiazione nel Sistema Internazionale ed è una misura degli effetti e del danno provocato dalla radiazione su un organismo”

ベクレル Becquerel , “l’unità di misura del Sistema internazionale dell’attività di un radionuclide (spesso chiamata in modo non corretto radioattività)”

E la prima cosa che mi domando, da letterata piu’ che da scienziata, e’ chi fossero quei due signori. E’ curioso quanto una scoperta, che porta il nome di chi l’ha creata, possa risultare confortante o terrorizzante al tempo stesso. Watt, Volt, Herz, Joule… e anche Rolf Maximilian Sievert, uno scienziato di origine svedese e Antoine Henri Becquerel, che “nel 1903 vinse il premio Nobel insieme a Marie Curie e Pierre Curie per il loro pionieristico lavoro sulla radioattività”, dice Wikipedia.

Poi arriva la cena, si parla della stampa italiana. Mi chiedono se si ingrandiscano ancora cosi’ tanto le notizie. Lo affermo, mi arrabbio. Li vedo delusi e quasi mi pento. Ma prometto battaglia, informazione. Di dire cio’ che e’ bello e anche quel che e’ brutto. Gli parlo del gruppo facebook, fiera del fatto che siamo giunti a oltre 870 elementi e che le discussioni sono sempre accese e interessanti. Mi allungano il piatto di karage e mi chiedono se riesco a dormire ultimamente.

Si parla anche di acqua, dei livelli di radioattivita’ che sono tornati ad abbassarsi, della presenza o meno di bottiglie d’acqua minerale in casa e dell’eventualita’ di comprarne comunque per la Gigia, una volta che tornera’ a casa con noi. La Gigia sta tra i piedi miei e di Ryosuke e le basta quello per raccontarci tutta la sua settimana. E basta anche a noi per raccontarle tutto cio’ che conta.

Il calendario accademico non mutera’ e mi sento cosi’ sollevata. Tutto tornera’ alla normalita’ pian pianino, ci vorra’ ancora del tempo ma essa, la quotidianita’, avra’ allora per tutti noi decisamente un valore aggiunto.

"Il solito, per favore!"

Se da una parte il blog e il gruppo facebook mi hanno dato la possibilità di percepire un’energia nelle persone che forse mai mi era accaduto di sentire (e mi ha sorpresa), dall’altra non vedo l’ora di ritornare alla mia solita vita.

Il portatile in borsa con dentro custoditi i miei romanzi, le lezioni all’università, gli studenti e la sottile ansia che accompagna ogni nuovo incontro, le torte salate e i guanti spaiati con cui le estraggo dal forno, il ritorno di Ryosuke a casa ogni sera e non dedicarmi ad altro che a lui, sentire i suoi racconti, offrirgli i miei e andare a dormire con quelli di entrambi mescolati nella testa.

Le passeggiate con la Gigia, il suo sederotto buffo, le orecchie a forma di antenne e le pulizie di casa per riparare ai suoi unici doni: i peli. Usaghino, i discorsi del cuscino, i caffè con Miwa, le chiacchierate con Keiko con la sua splendida bimba sempre in braccio,  i discorsi che s’aprono a ventaglio. La Banda di Marco, Carla, Sara e Alessandra. Il dottorato a cui ho pensato ormai abbastanza per decidere che è arrivato il momento di provare a realizzarlo. Il corpo, il mio fioretto, la lingua giapponese che non mi basta mai.

I treni, scrivere nel ventre della Tozai, della Sobu, della Chuo o della Yamanote. La massa di gente stipatavi dentro e la sensazione di divenire parte del corpo di un altro. La spesa in bicicletta, il cestino che trabocca di verdure.

E già non vedo l’ora che sia estate per andare con Ryosuke a Sendai per il Festival di Tanabata e abbracciare così virtualmente anche Matsushima e le zone più colpite dal terremoto e dallo tsunami.

Difficilmente si potrebbe amare così tanto una città e una popolazione. Io devo al Giappone la realizzazione di tutti i miei desideri e, quando si riceve così tanto, ricambiare è d’una ovvietà inesprimibile. Diviene addirittura una necessità.

Fosse un cibo sarebbe “il solito”. Quello che, varcata la soglia del ristorante, il cameriere ti porterà immediatamente. Senza bisogno di ordinazione, perchè ha già capito, perchè chiedi sempre lo stesso e sei diventato così prevedibile che quasi non esistono eccezioni.

Sarà che ultimamente mi è passato l’appetito e al cibo penso spesso ma di questo sono assolutamente certa: se il Giappone, e Tokyo soprattutto, fossero un piatto io non ne avrei mai abbastanza.

“Il solito, per favore!”


がんばれ日本! Forza Giappone!

*La prima foto l’ho scattata a Shibuya qualche giorno fa, la seconda in estate dal Mori Museum di Roppongi

L’abito rosso e l’età di Shibuya

Un appuntamento a Shibuya per parlare con una persona, che poi sono due, ma questo è il bello degli estranei. Si moltiplicano, per diventare in breve – parimenti – conoscenti.
Si chiacchiera davanti a un cappuccino da Segafredo e scopro cose che ignoravo, modalità di vita così lontane dalla mia e, allo stesso tempo, incredibilmente affascinanti.

Abito rosso, il mio preferito in questi giorni. Lo stesso che ho indossato quando ho fatto ritorno a Tokyo, a tre giorni dal terremoto. Ero sbarcata da poche ore all’aeroporto di Roma, mi attendeva un piccolo soggiorno nella capitale e una vacanza più lunga a New York.
Non ce l’avrei fatta, l’ho capito al’istante. Così il giorno successivo ho cancellato tutte le prenotazioni, albergo e aereo, e due giorni dopo ero sul volo Alitalia per Tokyo. Ritorno anticipato, nessuna penale. Un telefonista adorabile dall’accento brasileiro, che si è persino commosso insieme a me, ha cercato in tutti i modi di aiutarmi.

Sono le perle che ti mettono in pace con il mondo. Sono collane da mettersi al collo quando si teme che tutto vada a scatafascio.

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L’abito rosso, dicevo. Perchè ci vuole intensità, c’è bisogno di colore. E, in questo momento, in cui da Segafredo, solitamente colmo di stranieri, non si vedono che un paio di occidentali, c’è bisogno di spiccare. C’è, in tutto ciò, l’orgoglio delle scelte che, siamo d’accordo, potevano essere anche azzardate. Se è andata bene fino ad ora è soprattutto per una questione di fortuna, una fortuna che forse è qui a compensare la tragica sfortuna di uno tsunami e di un terremoto di dimensioni imprevedibili.

Ma poi c’è anche la fiducia, che è creatura delicata e va protetta.

Rosso pesce, rosso d’acero, rosso lacca.

Quanta gente a Shibuya stasera. Fa bene al corpo guardarla sbraitare nel dialetto delle ragazzine, vestita nei modi assurdi che la contraddistinguono, nello strascicare di uomini e donne verso il pachinko che vi restano le ore, incantati, dalle biglie e dalle luci.

L’età media non c’è per chi transita al suo interno. E’ giovanissima Shibuya, nuova di zecca, oppure è consunta e imbevuta di stanchezza.
Il vestiario, lo si nota, è già mutato. La curiosità di lanciare un’occhiata all’interno di Ichi-Maru-Kyu 109 e vedere in cosa esattamente la moda sia cambiata è notevole ma sono quasi le 18.00 e ultimamente, per i vari black-out, i supermercati dentro alla stazione chiudono a quell’ora invece che alle 21/22.

E quindi, tutti a casa a cucinare!

Video di Shibuya e Shinjuku… notare l’esodo di massa o_O

Stazione di Shinjuku, arrivo e partenza della Yamanote.

Strisce pedonali di Shibuya da una diversa prospettiva.

L’incrocio di notte, prima i mezzi (notare che si tratta prettamente di mezzi pubblici e taxi per evitare il consumo di benzina e i maxi schermi spenti).

 

Mitaka →Shinjuku →Shibuya →Kichijoji

La telecamera in borsa, quella che ci ha regalato il padre di Ryosuke per il matrimonio e che abbiamo usato durante l’atipico mini-viaggio di nozze a Kyoto e Nara con tutte e due le nostre famiglie. E’ la stessa telecamera di cui una studentessa, mentre filmavo l’esame orale del secondo semestre, mi ha detto di conoscere tutte le caratteristiche. Era per farmi sapere qual era il suo lavoro part-time, per sciogliere l’ansia della prova e per chiacchierare con la sensei un’ultima volta prima della laurea.

Oggi l’ho utilizzata per uno scopo assai diverso. Sono andata a Shinjuku e ho ripreso l’uscita sud, al di qua dei tornelli, la Yamanote su cui poi sono salita, la stazione di Shibuya, le scrisce pedonali, alcune strade del quartiere.
La nebbia copriva la chioma dei grattacieli, quasi rendendoli canuti. Dalla Chuo osservavo la loro cima ovattata e nell’uscire dal treno ho avvertito il biancore diffuso dell’aria che, nel freddo, acquista una sua consistenza. E’ il profilo deciso della stazione, l’andirivieni di gente ed ombrelli, la precisione del passo che si dirige verso una delle sei uscite della metro o verso un’altra banchina per il cambio del treno. Lo stesso paesaggio che osservo quando il mercoledì e il venerdì vado a Mejiro e cambio a Shinjuku per la Yamanote in direzione Ueno.

L’unico sentimento nuovo, di stranezza, è quello legato alle mie azioni l’iwakan (違和感) come si direbbe in giapponese. La telecamera in mano, la borsa ai piedi e il cellulare in tasca, in attesa che Ryosuke mi richiami dal lavoro. Avverto un forte imbarazzo. So che l’obiettivo può infastidire, che ad alcuni annoia l’idea di divenire parte di un video che non guarderanno mai. Ma tant’è. La documentazione deve essere accurata.

Riprendo la Yamanote e arrivo a Shibuya. Frotte d’ombrelli si riversano sulle stresce pedonali, un cameraman straniero riprende le mura della stazione e con un filo di cinismo mi chiedo se abbia avuto il coraggio di filmare anche la quantità di gente che procede da un lato all’altro della piazza. E’ identica Shibuya e mi scoccia dirlo. Perchè ho sempre sostenuto che di Tokyo ciò che spicca è proprio il mutamento. Dei negozi, delle mode, del linguaggio, della gente. Ma a chi la vorrebbe sepolta sotto le ceneri di una disgrazia presente ma geograficamente distante io rispondo con video silenziosi e fotografie che narrino quanto le parole non sono in grado di fare.
Starbucks, quello che dà sulla piazza, era troppo pieno di gente e così sono andata verso il caffè Excelsior per un pranzo tardo. Tutto pieno anche lì. L’esodo, evidentemente, non ha colpito la città come narrano i bugiardi! >.